Un altro Motti, un altro Nuovo Mattino

Ad inizio anni ’70 l’alpinista, scrittore, giornalista torinese diede vita ad un movimento alpinistico fondato sulla scoperta della libertà, del connubio uomo-natura, rifiutando la cultura alpinistica classica, della vetta ad ogni costo, dei record e delle gloriucce

Giampiero Motti

Chissà Motti oggi cosa direbbe e scriverebbe della piega che ha preso l’alpinismo e tutti gli altri sport di montagna. Della montagna in sé. Della deriva consumistica e del lunapark d’alta quota. Di record, artificialità e tecnicismi. Lui che voleva una montagna lontana da eroismi, che recalamava un connubio simbiotico tra uomo e natura lontani dalla vetta ad ogni costo, dalla gloria e dalla gloriuccia ad ogni costo.

Erano gli inizi degli anni settanta quando la contestazione sessantottina influenzò anche l’alpinismo. Il nuovo movimento alpinistico prese il nome di “Nuovo Mattino”, proprio dal titolo di un articolo di Gian Piero Motti sulla Rivista della Montagna di cui fu direttore dal ’75 al ’77. Il pensiero di base si fondava sul fatto di vedere l’alpinismo come scoperta della libertà, gusto per la trasgressione, rifiutando la cultura alpinistica della vetta a tutti i costi, dei rifugi, degli scarponi, del CAI, delle guide, e deprecando lo sfruttamento ambientale delle montagne.

Ecco quanto diceva:

«Con l’incremento dei mezzi tecnici si è creduto di progredire, ma in realtà non si è fatto che regredire sul piano umano. A poco a poco si è creata l’illusione di poter salire ovunque, si è creduto ingenuamente di poter aprire il territorio alpinistico a chiunque, usufruendo dei mezzi aggiornatissimi che la tecnica ci ha messo a disposizione. La stessa illusione amarissima la sta vivendo la società occidentale, la quale, credendo assai presuntuosamente di assoggettare la natura ai propri voleri, sta assistendo impotente alla distruzione del pianeta». (G. Motti, Rivista Fila, 2-1976)

E ancora:

«Sarei felice se su queste pareti potesse evolversi sempre più quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostata invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza». (G. Motti, Scandere, 1974)

Motti era un visionario, un rivoluzionario nelle sue idee ma già al nascere de Il Nuovo Mattino sapeva che sarebbe decaduto di lì a poco per la strada intrapresa non solo dal mondo della montagna ma dalla società in generale.

Passati gli anni settanta e ottanta, infatti, il Nuovo Mattino tramonterà con le sue contraddizioni, lasciando nell’innovazione solo quello che poteva essere consumato e massificato.

Parlando del free climbing e della piega che, secondo lui tale disciplina stava prendendo, disse:

«.. pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disinibizione. Ahimè… ora ci si va accorgendo che invece ha portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell’uomo-muscolo alla Bronzo di Riace, glorie e gloriuzze, re e reucci di paese… un quadro forse peggiore di quello dell’alpinismo di ieri. Il Nuovo Mattino rappresentava la possibilità di estendere la dimensione dello spirito a quelle strutture rocciose che erano invece ripudiate dagli alpinisti tradizionali». (G. Motti, Arrampicare a Caprie, 1982)

Questo gruppo di alpinisti fu costituito da Gian Piero Motti, Gian Carlo Grassi, Danilo Galante, Roberto Bonelli, Andrea Gobetti, Mike Kosterlitz, Ugo Manera e altri. Furono anche chiamati il Circo Volante o il Mucchio Selvaggio.

Bene, oggi più che mai e domani ancor più che mai, dovrebbe esserci un’altra alba che segna un nuovo mattino. Ancor più oggi che tali imprese sportive con sfondo di montagna devono sottostare a logiche di mercato dettati dagli sponsor, dalla comunicazione oltre che da una sfrenata ambizione individuale. Ci si inventa di tutto per scrivere il proprio nome nei guinness di stravaganti primati. E’ anch’essa libertà di esprimersi, di scegliere ma, gratta gratta, è pur sempre una logica incanalata. L’avventura diventa lavoro!

Era il 1972 e sulla rivista del Cai esce questo scritto di Motti (I Falliti) che riproponiamo integralmente in tutta la sua crudezza, profondità ed attualità:

“.. I giorni del tempo passato accorreranno a noi tutti insieme quando li chiameremo e si lasceranno esaminare e trattenere a tuo arbitrio…. È proprio di una mente sicura di sé e quieta l’andar di qua e di là per tutte le parti della sua vita, mentre gli animi delle persone indaffarate non possano ne rivoltarsi ne guardare indietro, quasi si trovassero sotto il giogo … ”

La lettura di questo sereno pensiero di Seneca in un momento per me particolarmente positiva e felice, mi ha condotto a trarre alcune considerazioni che a tutta prima sembreranno interessare solo il mio modo di vivere, ma che invece investono quello di molti che come me praticano assiduamente l’alpinismo.

Dieci anni, e non sono pochi, dieci anni durante i quali ho avuto modo di vivere sensazioni diverse per qualità e intensità, giornate e attimi incancellabili, altri più cupi e ombrosi che vorrei dimenticare.

Dieci anni durante i quali ho potuto avvicinare un gran numero di alpinisti di diversa estrazione sociale e di differente sensibilità. Oggi da questi contatti umani esco un po’ deluso. Ebbene si, ho conosciuto molti alpinisti anche forti, grossi nomi internazionali, altri meno forti, altri ancora allievi delle scuole d’alpinismo: vivi era chi alla montagna era giunto attraverso l’amore per la natura e proprio per questo pensava all’alpinismo come a un’avventura più intensa e completa, venuta a poco a poco in una logica successione di sensazioni e di entusiasmi. Vi era chi vedeva nell’alpinismo un’affermazione reale e concreta della propria personalità, affermazione cercata forse proprio in seguito a una frustrazione o a un fallimento nella vita di ogni giorno.

Sovente ho sentito dire frasi come queste: “Per me la montagna é tutto”, “Ho dato tutto me stesso all’alpinismo”, “Se non dovessi più arrampicare sarei un fallito”.

Sul momento non ho fatto molto caso a simili affermazioni perché anch’io ho rischiato molto da vicino di divenire un fallito, in seguito a circostanze che avrò modo di chiarire in seguito, mi sono lasciato tentare dall’antico detto “Eritis sicut dii”.

Si, anch’io avrei dovuto dedicare tutto me stesso all’alpinismo tralasciando gli altri interessi. Dimenticare l’amore per il bello, per la musica e la poesia, l’amore per l’arte in senso lato, l’affermazione di se stessi nella vita di ogni giorno, le amicizie profonde estranee all’ambiente alpinistico, con cui condurre discussioni Interminabili su tutto e su tutti.

L’importante è allenarsi, sempre e di continuo, non perdere una giornata, avere il culto del proprio fisico e della propria forma, soffrire se non si riesce a mantenere questo splendido stato di cose. E se sopraggiunge una malattia o anche solo un malessere leggero, allora è la crisi, la nevrosi. Perche ciò che conta è arrampicare sempre al limite delle possibilità, ciò che vale è la difficoltà pura, il tecnicismo, la ricerca esasperata del “sempre più difficile”.

Trascinato da questo delirio, non ti accorgi che I tuoi occhi non vedono più, non percepisci più il mutare delle stagioni, che non senti più le cose come un tempo. Sei null’altro che un professionista; per te l’alpinismo è un lavoro. E così non ti accorgi che a uno a uno stai perdendo tutti gli amici, quelli che ti conoscono bene a fondo, che a volte hanno cercato di farti capire che stai sbagliando, e forse anche tu lo hai capito e lo sai bene, ma consciamente o inconsciamente ti rifiuti di accettare il peso di una realtà faticosa.

E così sono giunto a scrivere quelle “Riflessioni” che sono la testimonianza diretta di un uomo che sta naufragando sempre più, di un uomo che sta sospeso in bilico su un abisso immane, ma che prima di precipitare ha ancora la forza di ritirarsi un attimo e di pensare in quale stato si sia ridotto. Esaltato, nevrotico, indifferente quando non assente, ostinato e caparbio nell’inseguire una meta sbagliata eppure cosciente dell’errore.

Andavo ad arrampicare tutti i giorni o quasi, preoccupatissimo di ogni leggero calo di forma. Ma non mi accorsi nemmeno che stava divenendo primavera, non vidi neanche che qualcosa di diverso succedeva nella terra e nel cielo e chi ben mi conosce sa che ciò equivale a una grave malattia. Arrampicare, arrampicare sempre e null’altro che arrampicare, chiudermi sempre di più in me stesso, leggere quasi con frenesia tutto ciò che riguarda l’alpinismo e dimenticare, triste realtà, le letture che sempre hanno saputo dirmi qualcosa di vero e che con I’alpinismo non hanno nulla da spartire. Ma qualcosa comincia a non funzionare: ritornando a casa la sera mi sento svuotato e deluso, mi sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri, mi sembra anzi, e ne ho la netta sensazione, che il mio intimo si stia ribellando a poco a poco a questo stato di cose, che il mio cervello non tolleri questo modo di vivere. Ed ecco che giunge la crisi, terribile e cupa.

Ogni volta che vado ad arrampicare è un tormento, non sono più io, non ho più equilibrio, le mani mi tremano, non ho più coordinazione nel movimenti, ma soprattutto non “vedo” più nulla. E questo, chi lo ha provato lo sa, è veramente terribile. Tutto ti passa davanti e tu te ne stai indifferente, passivo, non vedi e non senti, ma invece, e ciò ti distrugge, vorresti sentire e vedere come e più di prima perché il passato rivive cristallino e limpido e si oppone con forza al buio in cui sei precipitato.

E allora ti dici finito, ti senti esaurito, svuotato: hai chiuso.

Ma cosa hai chiuso? Ma non ti accorgi, non ti rendi conto che ti sei creato l’infedeltà con le tue stesse mani, che hai tradito la tua essenza, che presuntuosamente ti sei isolato inseguendo fantasie morbose e cercando sensazioni sempre più esasperate? Hai sempre condannato chi si droga e non ti rendi conto che anche tu sei un drogato, perché la roccia è la tua droga.

Ti sei ridotto veramente male, eppure un giorno non eri cosi, eri molto diverso.

Andavi ad arrampicare quando lo desideravi, quando dentro di te sentivi il sangue fremere e friggere, quando avevi desiderio di sole e di vento, di cielo e di libertà. Eri allegro e spensierato, avevi un sacco di amici e di amiche e soffrivi da morire quando le sensazioni che provavi erano solo tutte per te e non vi era nessuno con cui spartirle. Cosi cercavi con la fotografia di rendere anche gli altri partecipi della tua gioia, oppure li trascinavi in lunghe e interminabili gite o li legavi a una corda e li portavi ad arrampicare sui sassi perché volevi che anche loro provassero le stesse gioie e le stesse sensazioni.

E se tu eri solo a provarle, ne soffrivi, anche fisicamente, ti sembrava di sentire qualcosa dentro che cresceva a dismisura e sembrava voler scoppiare.

Ma soprattutto eri sereno, sereno nel tuoi pensieri e nei tuoi gesti, sempre superbo e ambizioso come sei, ma ognuno ha difetti più o meno grandi.

Ora invece sei solo da morire, barricato nella tua torre d’avorio; con il tuo sterile solipsismo hai distrutto le cose più belle che avevi. Però non hai chiuso.

L’estate sarà triste, la più triste della tua vita. Ma un mattino, a seguito di lunghe giornate appiattite e monotone, giornate in cui anche una densa foschia di calore avvolge le creste dei monti rendendole ovattate e lontane, estranee e distanti, un mattino ti sveglierai sotto un cielo scuro e gravido di nubi, e un vento freddo e tagliente andrà a dividere i tuoi capelli mentre cammini da solo per quella strada che ben conosci.

Ma fra le nubi, a un tratto scoprirai un angolo piccolo piccolo di azzurro, che il vento nella sua gran corsa avrà liberato a poco a poco, e da quella densa nuvolaglia filtrerà un raggio di sole che come una spada scenderà diritto a illuminare una cresta tormentata, che solo ieri non avresti neppure notato. E così oggi i contorni sono chiari e definiti, oggi le creste si stagliano scarne e scheletritesotto il cielo d’inchiostro, oggi il verde è più verde, oggi il bosco ha una vita e un profumo, oggi vedi le cascate e la luce del torrente, oggi …

… Da quattro ore Alberto Re e io siamo seduti su un minuscolo terrazzino, immersi ciascuno nel propri pensieri, silenziosi e forse un po’ gravi. Siamo sulla Nord delle Grandes Jorasses: è una salita che tutti e due abbiamo sognato e inseguito a lungo, e ora la montagna ci prova duramente. E pensare che siamo andati all’attacco ridendo e scherzando, pensare che al rifugio ho dormito tutta la notte, un sonno tranquillo e profondo: ho persino sognato.

Il primo giorno un sasso ha colpito Alberto, le pessime condizioni hanno rallentato molto la nostra andatura e abbiamo dovuto bivaccare sopra le placche nere: E poi la notte è stata un inferno, cinquanta centimetri di grandine, concerto di tuoni e fulmini.

Oggi nella “Cheminée rouge” ho vissuto i momenti più duri e difficili della mia vita, siamo stati fulminati, abbiamo dovuto uscire alla disperata da questo orrendo camino che ci vomitava addosso cascate scroscianti di grandine e sassi, assordati dal frastuono del tuono e della folgore.

Ora è pomeriggio e siamo qui su questo terrazzino a soli duecento metri dalla meta, e attendiamo in silenzio che la natura si plachi. Siamo preoccupati, abbiamo paura di morire? Non lo so. Io personalmente vedo ben da vicino il rischio che ho corso e che sto correndo, ma non ho paura, sono solo molto triste. E’ la fine di luglio, e immagino un bel pomeriggio di sole lassù in Val Grande, e davanti ai miei occhi le immagini si susseguono con chiarezza: cosa avrei fatto oggi? Forse avrei giocato a pallone, o forse avremmo fatto una passeggiata tutti insieme nel prati della Stura, e seduti sul solito pietro ne avremmo iniziato interminabili discussioni sulla religione, sulla politica o sulla vita.. O forse ancora sarei andato con la ragazza in un prato e dopo l’amore mi sarei soffermato a lungo a dividerle i capelli a uno a uno, o a stuzzicarle il viso con un filo d’erba, o a osservare la luce del suoi occhi illuminati dal sole. O, ancora da solo, sdraiato in un grandissimo prato, avrei affondato lo sguardo nell’azzurro del cielo con l’intento di scoprirvi lontane fantasie o avrei inseguito i giochi delle nubi con il sole cercando forme strane e fantastiche nel loro biancore pulito. O ancora avrei camminato lentamente, nell’erba, mentre il vento la piega disegnando le onde del mare e ne trae un profumo forte e pungente di fiori e di fieno.

E vedo a mezzogiorno tutti i miei cari seduti intorno al grande tavolo e ancora mi pare di sentire le loro e le nostre vivaci discussioni, perché le idee sono molto diverse.

Invece sono qui, dove non vi è nulla di umano, ma proprio per questo so che devo arrivare in vetta, perché so che quando ritorno mi aspetta la vita.

Per uno strano caso la commozione mi colse su quella vetta delle Grandes Jorasses, alle nove di sera di un giorno di luglio, sotto un ciclo nero e cupo, illuminato da bagliori violetti verso le cime del Gran Paradiso. Certi momenti non si dimenticano, restano, segnano per sempre un’amicizia. E se ripenso alle sensazioni che provai quando ritornai, mi sembra di rivivere ancora uno dei periodi più pieni e felici della mia vita. Scoprivo ogni cosa come nuova e diversa, i colori, gli amici, mi sembrava di voler bene a tutti e a tutto. Per un mese non andai più ad arrampicare o almeno non feci più salite importanti. Ma in quel mese ebbi modo di effettuare meravigliose gite con gli amici, trascorsi intere giornate alla ricerca di paesaggi e di fiori per l’obiettivo della mia macchina fotografica, mi divertii a giocare come un ragazzino. E non pensai neppure al mio stato di forma, la cosa non mi interessava, perché ero ugualmente soddisfatto e felice anche se non compivo delle grandi salite. Tant’é vero che quando sentii ancora il desiderio di una grande e bella avventura, quando mi prese ancora la voglia di avere roccia sotto le dita, sempre con Alberto andai a fare la via Brandler-Hasse sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo. E mi trovai benissimo.

Oggi se perdo una domenica intristisco, divento irascibile, nervoso, se ogni volta che arrampico non vado a fare una via estrema, non mi sento soddisfatto. Eppure non mi sembra di essere più in forma di allora.

Non si può andare avanti così.

In primavera ho occasione di leggere un libro che reputo uno dei più intelligenti e interessanti della letteratura alpina. Si tratta di Les royaumes du monde di Jean Mohn, un romanzo apparso in Francia negli anni Cinquanta. Vi si narra la storia di un uomo che quasi inconsapevolmente viene assorbito e trascinato dalla passione delirante per l’alpinismo: un uomo però dubbioso e sensibile, tormentato sempre dal sospetto di avere sbagliato, ma nello stesso tempo magneticamente attratto dall’azione anche esasperata. Gli è compagno un altro uomo che invece vede solo l’alpinismo e che cerca di convincere l’amico a dare definitivamente tutto il meglio di se stesso alla causa. Così il nostro a poco a poco si isola sempre di più, l’alpinismo diviene una triste droga, quasi un’espiazione da subire In silenzio. A uno a uno perde gli amici, la ragazza, e si ritrova di fronte al suo fallimento in un’ età in cui il bilancio di se stessi è ancora più duro. Ormai l’uomo ha capito ed è cosciente del suo errore: la conferma, triste e dolorosa, gli viene dalla tragica morte dell’amico sulla parete nord del Bans, attaccata in pessime condizioni di tempo.

Solo, di notte, in un rifugio, Jean si trova di fronte al nulla a cui è approdato, comprende di aver rinunciato a molto, a troppo pour une lutte sans issue.

La lettura del romanzo mi ha fatto oltremodo riflettere e ho cominciato a percepire che qualcosa andava incrinandosi. Ma non accettavo ancora la realtà, anzi, mi ribellavo prepotentemente. Poi, quasi per caso, mi capitò di leggere le stupende parole scritte da Dino Buzzati molti anni or sono per la morte di Zapparoli, forse la cosa più bella e più vera apparsa sulle pagine della nostra rivista.

No io non dovevo finire così, mi sentivo ancora (Dio mio, 25 anni!) vivo, pieno di interessi, avevo ancora troppe cose da dire, da vedere, da conoscere. Buzzati fu duro, ma giusto, in fin dei conti Zapparoli era un fallito.

Ma ancora non bastava. Bisognava toccare il fondo. Vuoi per un certo crepuscolarismo di balorda qualità, che ogni tanto affiora nel miei giorni peggiori, vuoi per una certa voluptas dolendi che ogni tanto esercita il suo fascino, assunsi la parte dell’uomo deluso e finito e cominciò una recita piuttosto grottesca. Per giustificazione o per meglio mascherare il mio fallimento agli occhi degli altri mi atteggiai a ribelle nel confronti della società, cercai di entrare nella parte dell’anarchico che disprezza i comuni mortali che odia la normalità, dell’uomo finito a vent’anni, dalle idee tenebrose e cupe, dai lunghi silenzi. E anche nei vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto: barba, capelli lunghi, abiti logori e sdruciti, atteggiamenti molto posati.

Con il risultato che il mio cervello non tollerò più oltre e mi assestò il colpo definitivo. Esaurimento nervoso di grossa portata, con perdita completa del sonno e un sacco di disturbi fastidiosissimi. Smisi naturalmente di andare in montagna in tutti i sensi, anche su quella facile, e non feci che aggravare le cose.

…Oggi, oggi invece, seppure da un piccolo spiraglio comincio a rivedere le cose. Ho capito l’errore; troppo a lungo ho vissuto in una piccola stanza dove ho chiuso ermeticamente le finestre e le porte, e lì, da solo, nel buio, mi sono illuso che il mondo fosse tutto racchiuso fra quattro pareti. Poi una finestra si é leggermente dischiusa e un filo di luce vi è penetrato.

Seguirà un autunno incerto, un ritorno alla montagna timoroso, ma con un animo diverso. Però non ancora tutto era chiarito, anche se cominciavo a star bene, qualcosa ancora nella mia testaccia non funzionava.

Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa, il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri Interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna. E perché? No.

Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria assieme agli amici.

Io lo so e l’ho sempre saputo, ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo. E poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che stupidamente avevo perduto e che ritroverò a uno a uno e che mi aiuteranno moltissimo a ritornare quello di prima.

E siamo finalmente nella realtà di questa primavera 1972. Ho trovato un lavoro che mi soddisfa e mi lascia molta libertà, libertà non solo di andare in montagna, ma anche di dedicarmi alle mille cose che ogni giorno mi attirano.

Quest’inverno sono andato pochissimo ad arrampicare, ma sono ugualmente felice e soddisfatto, anzi sicuramente l’anno prossimo dedicherò tutta la stagione invernale allo sci e cercherò finalmente di praticare con sicurezza questo magnifico sport. Quest’estate ho in mente sì di effettuare qualche bella salita; ma voglio anche dedicarmi ai viaggi che da tempo ho abbandonato e che, invece, sempre sono stati per me fonte di esperienze e sensazioni meravigliose. Un amico di ritorno dalla Grecia mi ha detto: “Vai di sera verso il tramonto, quando non vi è quasi più nessuno, di fronte al Partenone ad Atene. Fra quelle pietre calcinate, in quella sassaia arida e deserta, assordato dal frinire delle cicale, vedrai tremare nel calore del pomeriggio quelle enormi colonne e ti sembrerà veramente che II tempo non sia trascorso”.

E veramente, come disse Seneca, posso rivedere serenamente i giorni del passato. E rivedo tanti volti, tanti nomi, per i quali oggi non posso provare che una profonda tristezza. Perché ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini che avevano trovato nell’alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni .giorno. Uomini che si erano dati e che si danno caparbiamente alla montagna con l’illusione di trovare un’affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita.

Alcuni si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti, solo perché nell’alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu trasporti gli stessi individui in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi, spauriti e intimiditi, incapaci di intrecciare relazioni umane. Ed eccoli allora portare a giustificazione del loro fallimento l’incomprensione altrui, la banalità e il qualunquismo della gente, la superiorità di chi pratica l’alpinismo, la diversa sensibilità di chi ama la montagna. In realtà vi sono uomini sensibilissimi e amanti della natura anche al di fuori del territorio alpinistico, vi sono uomini che cercano e trovano altrove l’avventura e che sanno comprendere; ma, purtroppo, nell’alpinismo troppi sono i falliti e troppi i condizionati.

Non sempre, per fortuna, é così. Sovente ho incontrato ragazzi sereni ed equilibrati, ma molto più sovente l’uomo alpinista mi ha profondamente deluso per la sua ristretta visione delle cose, per la sua voluta ignoranza e per il disprezzo dei comuni mortali.

Chi invece la pensa diversamente, chi ha il complesso da prima donna e a tutti i costi si arrabatta per essere il primo, chi vive per la grande impresa e la difficoltà, forse farà per un po’ grandi cose, ma poi giungerà alla triste conclusione di chi a trent’anni, svuotato ed esaurito, ha dovuto dire addio.

Ogni volta che incontro Francesco Ravelli, penso a quest’uomo più che ottantenne che ancora oggi percorre i sentieri della montagna e che quando giunge la primavera mi parla con gli occhi che brillano degli alberi verdi e dei fiori”.

Il Direttore

 

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