Era la primavera del 2021, Gian Maestri ci raccontò un po’ del papà…
Cesare come padre è stato molto particolare, come lo era in fondo anche e soprattutto nella profondità del suo essere uomo.
Probabilmente nell’immaginario delle persone che non hanno mai avuto modo di conoscerlo bene, raffigurava il montanaro che legato al suo ambiente, aveva trovato il modo di emergere nello sport dell’alpinismo, che insieme allo sci era il naturale sbocco di persone dotate di fisico, grinta, ambizione, e soprattutto talento per diventare dei campioni, persone che per arrivare a fare ciò che si prefiggono non possono dare più di tanto spazio a sentimentalismi o legami umani personali.
Tutto vero nella maggior parte di loro, Cesare invece era un caso a parte.
La sua sensibilità riusciva a far legare il suo essere sportivo in una delle attività più pericolose e che richiedono la massima concentrazione, ad una umanità che teneva in ogni occasione sempre conto dei suoi affetti famigliari.
Per far capire questo, posso raccontare due passaggi della nostra vita che sono rimasti indelebili nella mia memoria.
Correva l’anno 1963, Cesare e Claudio Baldessari attaccarono la nord della Cima Grande delle Lavaredo per fare la prima ripetizione della via super direttissima aperta due mesi prima da tre scalatori tedeschi. La descrizione della loro salita diceva che il loro percorso era stato attrezzato con chiodi in modo d’avere la sicurezza necessaria per ripeterla. Cesare e Claudio arrivati a metà salita invece si resero conto che i chiodi erano stati posizionati malissimo e farne uso era un terno al lotto che non sarebbe stato giusto affrontare.
Pertanto abbandonarono il loro tentativo e fecero presente che loro erano scalatori, non kamikaze.
Subito i media cominciarono a dire che avevano lasciato perché non all’altezza dell’impresa, ed arrivarono anche parecchie lettere anonime che davano dei codardi a Cesare e Claudio.
Fino a che un giorno io ragazzino che frequentavo la terza elementare, tornai a casa piangendo perché i miei compagni di scuola mi prendevano in giro dicendo che io avevo il papà fifone, e fu quello che fece scattare la molla a Cesare. Il giorno seguente insieme a Claudio tornò su quella via ed anche se rischiando molto riuscirono ad arrivare in cima, mettendo così a tacere le malelingue, ma soprattutto e qui sta la particolarità di Cesare, i miei compagni di scuola che dovettero scusarsi con me.
Altro periodo che per me è impossibile da dimenticare è stata la spedizione al Cerro Torre dell’inverno patagonico del 1970. Oltre ai membri della spedizione, anche mia madre Fernanda ed io, ormai diciassettenne li accompagnammo fino al momento dell’inizio della scalata e poi tenemmo i contatti con loro per i restanti due mesi. Io sorvolai parecchie volte la zona del Torre per gettare dall’aereo materiale e viveri che per radio loro richiedevano. Fu una esperienza incredibile, ed anche se Cesare era in una situazione al limite, il fatto di essere stati coinvolti faceva in modo di essere vicini a lui in tutti i sensi.
Ecco, tutta la mia vita è stata una vera e propria avventura, e per questo lo ringrazio per le basi sportive ma soprattutto umane, che credo sia stato capace di trasmettermi.
Gian Maestri