Cristiano Iurisci: Sogno il Paretone d’inverno per una via diretta

Intervista a Cristiano Iurisci, uno dei massimi interpreti odierni dell’alpinismo appenninico, che ci ha parlato di sé e delle vie aperte, del suo amore per l’Appennino, i libri, il compagno di cordata Daniele Nardi

 

 

Cristiano Iurisci può essere considerato uno dei massimi interpreti odierni dell’alpinismo appenninico, lì dove ha aperto molte vie, soprattutto in Abruzzo. Nato e residente a Lanciano (CH), classe 1971, lavora come chimico nel campo della ricerca biomedica. A 28 anni frequenta un corso di arrampicata e poi uno di alpinismo: da qui in poi inizia salite su classiche dell’Appennino e delle Alpi, dal Gran Sasso alle Dolomiti. La sua passione è l’alpinismo invernale, si cimenta in cascate di ghiaccio e contemporaneamente apre vie nuove in inverno e su misto. Vie importanti sulle Murelle (Majella), il Monte Camicia (Gran Sasso) ma tanto altro.
È autore di alcuni libri sulla montagna: Passi di V°: 143 itinerari di alpinismo dal III al V grado,  Se lo sguardo esclude, Ghiaccio d’Appennino.

Ciao Cristiano, innanzitutto come stai? È trascorso un po’ di tempo dall’incidente sulle Mainarde…

Sto meglio, ma l’incidente mi ha comunque lasciato strascichi importanti: non posso correre e non posso andare in montagna senza bastoncini al seguito (la caviglia non si muove più come prima), quindi non posso più allenarmi bene a neanche fare cose lunghe in montagna.

Iniziamo a parlare un po’ di te: vero che la tua prima arrampicata è stato un muro di cinta di un convento all’età di 6 anni? 

Si, ero un bambino, ma il desiderio di cosa c’era dietro quelle mura che circondavano il convento era troppo irresistibile per me! Quel portone posto ad un certo punto del muro, portone che non si apriva e che nessuno più apriva (così mi era stato detto)! Quel portone così grande, vecchio e con un buco della serratura così enorme da farmi immaginare chissà quali segreti oltre quel muro! E quindi un giorno presi a seguire il muro fino a cercare un varco (muro rotto), feci pochi passi ma poi mi impaurii e tornai indietro…

Invece la tua prima salita alpinistica? 

La prima salita non ha una data precisa, se per alpinistica si intende l’uso volontario e cosciente della corda ha certamente una data, ma prima di quelle facevo già cose dove la corda sarebbe stata già utile se non addirittura necessaria. Ma ero inconsapevole e ignaro del mondo dell’alpinismo. Un giorno però mi spaventai, stavo facendo la traversata delle Tre Vette al Gran Sasso e ebbi molta paura e decisi che era il tempo di fare un corso di alpinismo (1998). La mia prima via alpinistica è avvenuta l’estate successiva, nel 1999 con due amici (Silvio ed Enzo) e salimmo lo Spigolo di Paoletto e il Campanile Livia in giornata, al Corno Piccolo. 

Con te non si può non parlare di Appennino: le non eccessive quote, l’antropizzazione, le ridotte dimensioni dei massicci, e altro: possono essere queste limitazioni ad un alpinismo d’esplorazione in Appennino oppure nella dorsale del centro-sud Italia c’è ancora tanto da fare e scoprire? 

Beh, la risposta è già dentro la domanda! Si, lo spazio di esplorazione è chiaramente ridotto, anche se era considerato già tutto esplorato anche 15 anni fa quando cominciai ad aprire nuove vie in Appennino. Certo che la dimensione delle montagne e la loro altezza riduce sempre più le possibilità, e credo che oggigiorno siano poche le cose ancora da “fare”, ma giocando con la fantasia si possono ancora immaginare nuovi itinerari, io stesso ho ancora tanti sogni nel cassetto.
Ciò sarà possibile però se, e solo se, l’alpinista che lo vuole fare accetta il fatto che le sue scalate potranno non essere considerate come imprese o exploit, a meno di fare cose assai rischiose o pericolose. Se si è scevri da questo concetto di cercare salite estreme in un’ottica dell’evoluzione dell’alpinismo, le possibilità di fare alpinismo ci sono.
Se si lascia agire la fantasia nel trovare problemi alpinistici in una delle qualsiasi pareti o versanti appenninici il gioco è fatto. Se si è scevri da cercare cose che piacciono agli altri, o agli sponsor o di voler spostare l’asticella delle difficoltà verso l’alto, l’Appennino può ancora regalare emozioni di esplorazioni e avventura. Comunque ciò non toglie che vi sono margini anche di trovare la salita futuristica, difficile ed estrema, magari fatta con un’etica stringente e severa. Ecco, forse questa può essere la chiave di lettura per trovare anche in Appennino salite che seguano l’onda evolutiva dell’alpinismo moderno.

 

 

Appennino non blasonato, sconosciuto, ritenuto collinetta. Così non è, come hai dimostrato anche tu con le tue salite e i tuoi scritti. Vedi un maggiore interesse negli ultimi tempi per l’Appennino? 

Si, forse perché io (assieme ad altri) siamo riusciti a far passare il concetto che esiste un Appennino Verticale che non è da trascurare e che ha una sua relativa importanza. Molti alpinisti del nord, incuriositi da foto e relazione, una volta scesi giù a visitare e scalare in Appennino, le loro reazioni sono state sempre positive e di meraviglia.

Sei autore di diversi libri. Beh, Passi di 5° è tanta roba con ben 143 itinerari nell’Appennino centrale… 

Avrei potuto relazionare anche 180, 200, persino 300 itinerari, la scelta di 143 itinerari è motivata da questioni di spazio ma soprattutto dalla responsabilità nei riguardi di chi le andrà a ripetere le vie.
Come già detto prima l’Appennino è relativamente piccolo e le sue montagne sono spesso docili e solo a tratti compaiono cime alpestri con piccole pareti spesso rotte da cenge e pendii erbosi. Relazionare altre vie significava doverle ripeterle di persona per verificarne lo stato, migliorandone la chiodatura oltre a disgaggiare eventuali pietre pericolanti. Un lavoro immane se pensate che ho impiegato quasi due anni a ripetere il 70% delle vie relazionate, soprattutto di quelle lontane dai soliti posti.
Ho dovuto usare una quantità spropositata di chiodi in quanto gli apritori in queste vie remote non hanno lasciato nulla. Sono vie di un alpinismo romantico, immerse in un paesaggio isolato e poco conosciuto, di un alpinismo non commerciale e che non sta solo a soddisfare la movenza e la plasticità dei movimenti su pareti perfette e impeccabili magari anche rigorosamente messe in sicurezza.
L’ho fatto perché scalare su alcuni degli itinerari suggeriti nel libro si ha la possibilità di conoscere e approfondire veramente il nostro piccolo ma splendido Appennino. Si ha la possibilità di gustare quegli aspetti dell’alpinismo che non ritengo essere secondari e che sono la chiave di lettura per godere di queste montagne. Forse la mia idea non è aggiornata nel tempo, poiché troppo romantica e poco ludica, ma l’alpinismo è qualcosa che va oltre l’aspetto sportivo e del puro gesto atletico, l’alpinismo è anche panorami, isolamento, grandiosità del paesaggio, sensazioni, ricordi e avventura: la scelta dei luoghi diviene il primo movente che ci spinge ad esplorare e a scalare.
Citando una famosa frase: l’alpinista è colui che posa le mani dove un giorno si era già posato l’occhio.
La mia guida sottolinea tali aspetti, e si basa sul concetto che l’Alpinismo non è inteso come una falesia più lunga e spostata di quota.

In «Se lo sguardo esclude» racconti con passione delle tue salite. Possiamo dire che sei davvero innamorato dell’Appennino? 

Sono profondamente innamorato dell’Appennino. Ma con questo non disdegno le altre montagne, sia chiaro! L’Appennino è ciò che vedo dalla mia finestra ed è ciò che mi fa sognare.

E ci spieghi anche il titolo del libro? 

Il titolo sfrutta la citazione del tutto Leopardiana della poesia dell’Infinito: un “ermo Colle che lo sguardo esclude”. La mia voglia di esplorare e di conoscere è tale che non esiste colle che mi esclude lo sguardo verso un nuovo orizzonte o verso una nuova parete.

E poi la tua passione per l’alpinismo invernale è sfociata in «Ghiaccio d’Appennino»… Hai aperto molte ed interessanti vie sull’Appennino, forse più di 100. Hai qualche altro progetto in particolare in mente?

Per ora non ho progetti grossi in mente, il mio incidente mi obbliga ad abbassare il tiro, ma mai dire mai! Non ho mai contato le vie che ho aperto…ma non credo arrivino a 100! Ma i miei compagni di avventura continuano a spronarmi di andare, di fare… chissà se arriverò davvero a 100! Per ora non è assolutamente una priorità, come non lo è mai stata, io volevo solo scalare lontano dai soliti posti.

Daniele Nardi, con lui hai aperto diverse vie. Insieme anche a Luca Mussapi vi chiamavate il Trio Cavallette. 

Il nome è stato inventato da Nardi in uscita dalla via nuova sul monte Camicia (Diretta la Pisciarellone, marzo 2017) e credo alludesse alla possibilità che il Trio avesse di fare razzia di imprese appenniniche (ma potrei sbagliarmi!).

 

 

Dall’incidente sul Mummery si è parlato tanto di Nardi, sia come alpinista sia come uomo. Tu lo conoscevi in entrambe le vesti… 

Con Nardi ho scalato troppo poche volte e ho avuto troppi pochi incontri extra-alpinistici per avere una opinione oculata e veritiera di lui sia come uomo, che come alpinista. Quello che dirò oltre è quindi basato su quelle poche esperienze diretta avute, e non sarà basato su cose lette sui social o sulle riviste on-line o cartacee che hanno parlato di lui negli ultimi anni. Quello che posso dire è che lui non ha mai pensato ad una missione omicida nel tentare di scalare lo Sperone Mummery, lo dico perché le poche volte che abbiamo dovuto fare scelte su se, come e quando scalare, queste erano sempre ben oculate e studiate sia dal punto di vista tecnico che sulla meteo come anche sulla pericolosità (scariche, neve, valanghe, ecc). Ogni scelta avveniva dopo ore di discussione sviscerando tutte le problematiche del caso.
È successo così ad esempio quando lo convinsi che poteva fare la 1° solitaria invernale alle Murelle. Un’impresa da pochi conosciuta solo perché sfumata per un banale errore avvenuto dopo però aver superato il tratto chiave della via.
È successo durante la preparazione sulla via del Gran Diedro sempre alle Murelle: ci siamo sentiti al telefono più volte al giorno nei giorni immediatamente precedenti la salita per capire e comprendere quali e quanti fossero i pericoli ai quali andavamo incontro.
È successo così quando scalammo il bordo destro della grande parete N del Camicia per una nuova via, ed è successo così quando dovevamo trovare il giorno adatto a scalare il Paretone del Gran Sasso in invernale. Progetto rinviato per due anni, il terzo anno ero infortunato io, e l’ho convinto a tentare viste le mie considerazioni positive sulle condizioni, ma poi una volta arrivato alla base Daniele ha avuto paura e, nonostante le mie insistenze al telefono di aspettare che la notte avrebbe fatto gelare tutta la neve molle che aveva sotto i piedi, e di non rinunciare subito, Daniele ascolta il suo cuore e sente che il luogo non è sicuro e si ritira.
Con queste piccole esperienze non posso che pensare che ciò che è successo al Nanga non è suicidio conclamato, tantomeno una missione suicida. Se si riflette un attimo sul fatto che, se per ben 5 inverni di tentativi, dove Daniele ha effettuato almeno 25 bivacchi sullo Sperone, senza contare i giorni passati sullo Sperone a spostare, montare e smontare corde fisse e campi avanzati, Nardi sia sopravvissuto, possiamo ritenere che quel posto non sia così mortale come descritto. Non era una roulette russa essere lì, certo era pericoloso, come lo sono pericolose altre montagne, forse lo era di più, ma non era una roulette russa.

Se fosse stato così Nardi doveva morire giù durante il primo tentativo, o al secondo, se invece è accaduto solo al quinto, la prima cosa che mi viene in mente è che Nardi non era uno sprovveduto suicida. Lui aveva studiato bene tutto e aveva compreso tutti (o quasi) i pericoli di quel posto. Purtroppo qualcosa è andato storto, e dalle ricostruzioni pare non essere una valanga.
Di più non so, ma anche fosse stata una valanga, avere un incidente solo al quinto anno è la dimostrazione che non era una trappola quella via e che Nardi era ben preparato. Nardi purtroppo aveva quel sogno, che molti non comprendono (me compreso, e gliel’ho anche detto, ma a lui brillavano gli occhi alla sola parola Nanga Parbat) ma a volte l’alpinista entra in una fissazione senza che vi sia una ragione oggettiva e misurabile, un po’ come l’ha avuta il capitano Ackab per Moby Dick. E un po’ in fondo come me che l’ho avuta per le Murelle.

Accennavi al Gran Diedro sulle Murelle (Majella), aperto con Nardi e Mussapi: quali sono le maggiori difficoltà della Via? 

La via è classificabile come estrema, oltre alle difficoltà tecniche elevate, l’avvicinamento, l’isolamento, i pericoli oggettivi, ne fanno una salita di grande rilievo, questo sempre a mio avviso. Nardi è stato davvero bravo, né io né Mussapi avremmo mai potuto risolvere quei passaggi da lui scalati. Ma, come ripetuto e sottolineato anche dallo stesso Nardi, il merito è di tutti e tre, oltre a quella due amici ‘sherpa’ che ci hanno aiutati a portare il materiale sino alla base della parete (la Majella, in inverno, è un piccolo Nanga Parbat!).

Vogliamo parlare un po’ di attualità? La prima curiosità che ho da chiederti è cosa ne pensi delle limitazioni in montagna in ottica di prevenzione di incidenti.

Che lo scopo sembrerebbe non essere quello di limitare gli incidenti, ma di “economizzare” anche l’ultimo baluardo di libertà dell’uomo moderno: la montagna. Di togliere l’ultima cosa gratuita all’uomo ovvero la libertà e l’avventura e tutto in nome di una presunta sicurezza, poiché rischio zero non esiste.  

Hai letto che da un politico abruzzese è stata avanzata l’ipotesi di imporre l’utilizzo di un braccialetto satellitare per chi va in montagna?

Perso che l’idea sia davvero pessima. Si pensi ai morti per annegamento in mare ogni estate. Dovremmo aspettarci anche lì un esame di nuoto e un patentino oppure obbligati a nuotare a fianco di un istruttore? Trovo tutto questo ridicolo e non rispondente alla risoluzione della problematica.
Oggigiorno c’è il mito della montagna e tanti, troppi, vanno in montagna, e si sa che, statistica alla mano, più persone salgono su, più alta è la possibilità che vi siano incidenti, e questo quasi a prescindere delle capacità dell’escursionista/scialpinista/alpinista.
La statistica ci dice che gli incidenti stanno aumentando di numero ma non in percentuale, e questo significa che nonostante il grossissimo aumento di frequentatori, gli incidenti sono aumentati molto poco. Accettato questo concetto meramente statistico di cui si dovrebbe andare fieri, rimane il fatto che continuano a morire persone e che qualcosa si può fare, sempre consapevoli però che il rischio zero non esiste e quindi zero morti è solo una astratta utopia.
Si può fare formazione, si deve fare formazione, ma questa non deve passare come obbligatoria perché tra i morti ci sono anche quelli formati, ci sono anche le guide alpine, i maestri di alpinismo e veterani dell’escursionismo, non ci sono solo quelli impreparati e non istruiti.
Quindi che ben vengano corsi del CAI, delle guide, delle associazioni accreditate o altre di come e quanto affrontare un percorso, di bollettini nivologici e meteo fruibili e dettagliati sul territorio.
È assurdo chiudere montagne intere perché ritenute pericolose. Ogni montagna è pericolosa, ogni luogo NON antropico è potenzialmente pericoloso. Non bisogna chiudere tali luoghi, bisogna solo far passare il concetto che l’incidente è sempre dietro l’angolo e che se ciò accade è sempre e solo colpa tua (salvo rari casi) e che nessuna amministrazione, sindaco, società potrà mettere in sicurezza una montagna, a meno che questa metta in pericolo luoghi antropici (piste da sci, strade, funivie, paesi, baite, ponti, eccetera).
Il caso dei due morti al fiume Orta dove è stato riconosciuto colpevole il sindaco è assurdo: capisco che su una balaustra di un palazzo ci debba essere scritto è pericoloso sporgersi, capisco che sulla metropolitana ci sia scritto che è vietato oltrepassare i binari, capisco che vicino ai cavi dell’alta tensione debba esserci scritto che puoi prendere la scossa, ma scrivere in ogni dirupo (e la montagna ne è piena) che se ti avvicini puoi cadere è ridicolo. Bisogna tornare al concetto di auto-responsabilità.  Mi vengono i brividi al solo pensiero se di dovesse mettere in sicurezza davvero tutta la montagna, oltre che a imbruttirla e imbrattarla, l’avrebbe di fatto resa di fatto un luna park, l’avrebbe uccisa. 

E delle limitazioni in genere? Ad esempio le Riserve integrali…  

Che sono giuste se ponderate, motivate e concertate. A volte può accadere che si vieta per vietare, per il gusto di sottolineare che il Parco ha una funzione di tutela e che vietando stia espletando la sua funzione principale.
Questo può essere vero se tale montagna è a ore di macchina da una città, da un paese, cosa ben diversa per una montagna dove l’uomo è stato presente da sempre e dove questo trovi sussistenza da essa con attività come legna, seminativi, pascolativi, ecc. In questi casi bisogna ponderare gli interessi di tutti tenendo a mente che forse l’obiettivo migliore non è quello non VIETARE ma di rendere tali attività (se possibile) ECOSOSTENIBILI. Ridurre gli impatti, ridurre, non vietare. Per cui se avere 1 milione di pecore può essere deleterio per tale località (ed è sicuramente così), si studia quale sarebbe il numero di pecore compatibili nel rispetto degli animali selvatici e/o in pericolo. Per cui se 1 milione di turisti schiamazzanti è un chiaro disturbo nei mesi di luglio e agosto (ed è chiaramente così), mi pare giusto ed ecosostenibile fare un numero chiuso, dirottando su sentieri e località meno delicate tale afflusso, ma lasciare libero l’accesso il resto dell’anno, quando l’afflusso è limitato, cercando di evitare di fare un ingresso solo con guida e a pagamento.

Vietare una zona non frequentata da animali in inverno (vedi ad esempio fredde e ghiacciate pareti nord tanto accuratamente evitate dagli animali) solo perché dentro i limiti amministrativi di una riserva integrale lo trovo un non senso. Il turismo per essere ecosostenibile deve essere controllato nelle sue attività, ma se il turista non caccia, non uccide, non distrugge, ma semplicemente visita quel luogo, non può che essere considerato un animale come un altro. Se il lupo, il camoscio, l’aquila reale e altri, sono sopravvissuti sino ai giorni nostri nonostante i nostri avi erano avidi boscaioli, crudi cacciatori, e non avevano minimamente comportamenti ecosostenibili, vuol dire che cancellare totalmente l’uomo su alcune delle nostre montagne forse è esagerato.
Le nostre montagne non potranno mai tornare all’epoca pre-romana, e farlo lo trovo anacronistico visto che oggigiorno in Italia siamo 60 milioni che devono in qualche modo lavorare per sopravvivere. Non siamo il Canada, non siamo a Yellowstone, non siamo in Namibia. Certamente deve esistere un limite alle attività umane, ma che se ne parli, che se ne discuta che se ne provi la reale necessità.
E invece la realtà è un’altra, in alcune zone l’uomo è interdetto e la sua sopravvivenza considerata fuorilegge, ma poi a pochi passi dal confine di questa area, lo stesso uomo non ha limiti e può fare tutto quello che vuole, compreso cavare una montagna.
Si pensi alle gole della Rossa, piene di cave ma contemporaneamente è fatto divieto di scalare.  Sul Gran Sasso a campo Imperatore pascolano un numero importante di mucche tutto l’anno (o quasi), si organizzano raduni senza limiti e senza regole, passano migliaia e migliaia di moto Harley Davinson con rumorosissimi motori che rimbombano su ogni angolo del Gran Sasso, e questo per tutto il periodo estivo, ma poi l’unico vessato di restrizioni è l’escursionista o addirittura l’alpinista.
Ci si accorge di come le regole siano sbilanciate e con lo scopo finale diverso da quello di cui sopra. Ed ora ho quasi l’impressione che vietare la libera fruizione rendendola possibile solo con accompagnamento dei funzionari ufficiali, abbia più una motivazione economica che di salvaguardia della natura. Mi auspico che si facciano dei distinguo.  Mi auspico che le bici elettriche siano incluse nei divieti poiché non hanno nulla di ecosostenibile, e di lasciare perdere quei pochi alpinisti e escursionisti che frequentano posti remoti in punta di piedi. Non mi dilungo oltre poiché le mie competenze ambientali sono scarse per cui potrei sbagliarmi sia nelle ipotesi che nelle conclusioni, ma sono certo sia possibile una valorizzazione delle nostre montagne senza per forza di cose distruggerle. 

 

 

Ci dici la tua sui record in montagna e dell’impresa di Nirmal Purja sugli Ottomila? 

Non ho una idea personale approfondita di lui, credo che quello che ha fatto si tratti di un’impresa in senso assoluto, ma credo anche che questo tipo di imprese sia un poco distante dal concetto originario di alpinismo.
Una salita alpinistica ha un inizio e una fine, e quando si torna a casa inizia un’altra storia, se poi ti prepari per un’altra salita diviene una seconda storia a sé, una avventura a sé. Collegare più cime tornando a casa pensando questa scelta come un progetto alpinistico unico lo trovo una forzatura. Insomma considerare di concatenare gli 8000 tornando a casa non è la stessa cosa di farlo sul campo. Sarebbe una semplice colleziono a tempi di record. Forse l’alpinismo si sta sportivizzando sempre più? Non saprei, ma non mi spingo oltre poiché sono così piccolo davanti a certi alpinisti che il solo pensiero di critica mi fa sentire fin troppo saccente e fuori luogo.

La giovanissima Laura Rogora (che abbiamo intervistato proprio in questi giorni) sarà alle Olimpiadi 2020 di Tokyo. L’hai conosciuta? Che consigli le dai?

Non la conosco e non saprei darle consigli, la vedrò gareggiare come spettatore e come tifoso. Il mio essere arrampicatore è così lontano dall’idea dei giovani che hanno sulle gare e sull’arrampicata che non mi potrei nemmeno permettere di dare consigli o suggerimenti. Le faccio tanti auguri sicuramente.

Grazie Cristiano, ultima cosa da chiederti: sulle Murelle sei andato «Oltre il sogno», il tuo desiderio da sveglio?

Riuscire a fare il Paretone d’inverno per una via diretta, ma credo che questo sogno rimanga tale: per questo sogno l’amico giusto era Nardi e ora lui non c’è più. Poi ci sono altri sogni, ma non ho più l’urgenza di concretizzarli come un tempo, come prima dell’incidente. Segno di maturità, o di …anzianità.

foto: facebook cristiano iurisci, danielenardi.org

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