Everest, la tragedia del 1996 e l'”aria pesante” che ne seguì

Tra il 10 e l'11 maggio morirono 8 alpinisti. La querelle scatenata nel libro "Aria Sottile" da Krakauer nei confronti di Bukreev

L’anno nero dell’Everest. Il 1996. Tra il 10 e l’11 maggio di morirono 8 alpinisti colti da una tempesta durante il tentativo di ascesa alla vetta. Fu l’evento che, fino a quel momento, segnò il più alto numero di morti in un giorno solo sulle pendici dell’Everest; questo record negativo venne in seguito superato dalla valanga del 2014, che causò 16 morti, e dal terremoto del 2015, che ne causò 18.

Un evento che ebbe un enorme cassa di risonanza, che si protrae ancora, per la querelle innescata da Krakauer che ebbe come bersaglio l’alpinista e guida Bukreev. Articoli, libri e l’incidente ripreso nel 2015 anche nel film Everest di Baltasar Kormakur.

Ritardi nel raggiungere la cima

Poco dopo la mezzanotte del 10 maggio 1996 la spedizione della Adventure Consultants di Rob Hall iniziò il suo tentativo di raggiungere la cima dal Campo 4, sistemato sulla sommità del Colle Sud a 7.900 m. A loro si unirono i sei clienti, le tre guide e gli sherpa della spedizione della Mountain Madness di Scott Fischer e una spedizione sponsorizzata dal governo di Taiwan.

Le spedizioni incominciarono presto ad incontrare imprevisti. A causa, probabilmente, di incomprensioni fra Ang Dorje Sherpa e Lopsang Jangbu Sherpa, né gli sherpa scalatori né le guide avevano sistemato le corde fisse prima dell’arrivo degli scalatori sul balcone (The Balcony), a 8.350 m. La ragione fu che un membro della spedizione montenegrina che il 9 maggio aveva compiuto un tentativo (peraltro fallito) alla vetta dell’Everest, aveva riferito allo sherpa Lopsang Jangbu: “Ci sono già le corde fisse, non avete bisogno di niente.” L’imprevisto costrinse gli scalatori ad interrompere l’ascesa per quasi un’ora nell’attesa che fossero piazzate le corde fisse necessarie per il superamento del balcone.

Inoltre, una volta raggiunto l’Hillary Step, a 8.760 m, gli scalatori si accorsero che non vi erano corde fisse nemmeno lì e questo comportò un ulteriore ritardo di un’ora sulla tabella di marcia. A causa del fatto che ben 33 scalatori stavano tentando di raggiungere la cima quel giorno e che, per motivi di sicurezza, sia Hall che Fischer avevano chiesto ai membri delle proprie spedizioni di non allontanarsi più di 150 m gli uni dagli altri, ci fu un importante imbottigliamento sull’unica corda fissa dell’Hillary Step. Stuart Hutchison, Lou Kasischke e John Taske che erano fra gli ultimi della lunga coda, insieme a Hall, ritornarono al Campo 4 per la stanchezza e per il timore di terminare l’ossigeno a causa dei ritardi nell’ascesa.

Scalando senza ossigeno supplementare, la guida Anatolij Bukreev, della spedizione Mountain Madness, raggiunse la cima a 8.848 m alle 13.07. Molti degli scalatori, tuttavia, non avevano ancora raggiunto la cima per le 14.00, l’ora dopo la quale sarebbe stato difficile ritornare al Campo 4 in tempo per la notte.

Bukreev iniziò la sua discesa verso il Campo 4 verso le 14.30, dopo aver trascorso all’incirca un’ora e mezza sulla cima aiutando gli altri scalatori a terminare la loro ascesa. A quell’ora erano arrivati in cima Hall, Krakauer, Harris, Beidleman, Namba oltre a tutti i clienti della Mountain Madness. Sempre verso quest’ora Krakauer, sulla via del ritorno, notò che il tempo si stava scurendo. Alle 15.00 cominciò a nevicare e la luce iniziò a diminuire.

Il sirdar di Hall, Ang Dorje Sherpa, assieme ad altri sherpa scalatori attesero sulla cima l’arrivo degli ultimi clienti fino alle 15.00, quando cominciarono la loro discesa. Sulla via del ritorno Ang Dorje incontrò Doug Hansen sopra l’Hillary Step e gli disse di scendere. Hansen non rispose ma scosse la testa e continuò a camminare verso la cima. Quando arrivò Hall gli sherpa si offrirono di accompagnare Hansen sulla cima ma Hall gli ordinò di scendere ad assistere gli altri clienti e di sistemare bombole di ossigeno di scorta lungo la via del ritorno. Hall rimase ad assistere Hansen che aveva terminato il suo ossigeno supplementare.

Scott Fischer raggiunse la cima verso le 15:45. Era esausto e cominciò a sentirsi male, probabilmente a causa di un edema polmonare o cerebrale. Gli altri, tra cui Doug Hansen e Makalu Gau, raggiunsero la cima ancora più tardi.

Giù nella tempesta

Bukreev ricorda di aver raggiunto il Campo 4 alle 17.00. Le ragioni per le quali Bukreev è tornato al Campo 4 prima dei suoi clienti sono discusse  Bukreev sostenne che era sceso prima, in accordo con Fischer, per essere pronto ad aiutare i clienti negli ultimi tratti della discesa e per fare scorta di tè caldo e ossigeno supplementare da riportare su a chi ne avesse avuto bisogno. Krakauer, nel suo libro, sostenne che invece la discesa anticipata di Bukreev fu dovuta al fatto che egli, essendo salito senza bombole di ossigeno, non poteva trattenersi troppo a quote elevate e fu quindi costretto a scendere presto. La scelta di salire, da guida, senza ossigeno fu criticata da Krakauer che la ritenne poco responsabile. I sostenitori di Bukreev (tra cui Weston DeWalt – coautore, assieme a Bukreev, del libro Everest 1996 e Simone Moro che fu compagno di scalata di Bukreev in altre occasioni) sostengono, invece, che l’utilizzo dell’ossigeno supplementare dà un falso senso di sicurezza e che quindi è stato più responsabile, per Bukreev, non utilizzarlo piuttosto che il contrario.

Il peggioramento del tempo cominciò a causare problemi alla discesa diminuendo la visibilità, seppellendo nella neve le corde fisse e le tracce dell’ascesa e rendendo più difficile quindi ritrovare la strada fino al Campo 4. Fischer rimase bloccato dalla tempesta sul “Balcone” (a 8.350 m) assieme a Makalu Gau e a Lopsang Jangbu Sherpa. Constatando la sua impossibilità di proseguire ordinò a Lopsang Jangbu, che voleva rimanere con lui, di proseguire da solo per poter aiutare i clienti in discesa. Hall chiamò aiuto via radio comunicando che Hansen era vivo ma aveva perso conoscenza.

Alle 17.30 Andy Harris, guida della spedizione Adventure Consultants, che aveva già raggiunto la Cima sud (a 8.749 m) fece marcia indietro in direzione di Hansen e Hall portando con sé delle bombole di ossigeno. Krakauer riferisce che, alle 18.30, il tempo era peggiorato tanto da diventare una vera e propria tempesta: “Pungenti pallottole di neve, sospinte da raffiche di vento da settanta nodi, mi bersagliavano il viso”. Molti scalatori di entrambe le spedizioni commerciali risultavano ancora dispersi.

La guida Neal Beidleman, in testa a Klev Schoening, Charlotte Fox, Tim Madsen, Sandy Hill Pittman e Lene Gammelgaard della spedizione Mountain Madness e la guida Mike Groom, Beck Weathers e Yasuko Namba della spedizione Adventures Consultant, scesi dalla Cresta Sud, si trovarono al buio e in piena bufera, alla base del ghiacciaio, a circa 400 metri dal campo base 4, senza poterlo vedere e si smarrirono.

Vagarono nella tempesta fino a mezzanotte. Quando non riuscirono più a camminare si accucciarono per riposarsi e per proteggersi dal vento, 20 metri sotto alla parete del Kangshung (Parete est dell’Himalaia), attendendo che il tempo migliorasse. Poco dopo mezzanotte il cielo si aprì abbastanza per permettere loro di vedere il Campo 4 a circa 200 m più in basso ma non lo notarono. Comunque Beidleman, Groom, Schoening e Gammelgaard si misero in cammino mentre Madsen e Fox rimasero con il resto del gruppo per gridare e dirigere i soccorritori. Schoening e Gammelgard guidavano il gruppo, finché Gammelgard vide una luce; era la lampada frontale di Anatolij Bukreev che, preoccupato per il mancato arrivo dei clienti, aspettava impaziente.

Bukreev diede soccorso ai sopravvissuti, tolse i ramponi ai nuovi arrivati, li sistemò in tenda al caldo nei sacchi piumino, fornì loro delle bombole piene di ossigeno e disse a Penba di dar loro del tè caldo. Bukreev cercò di farsi dire da Schoening e da Gammelgaard la direzione per raggiungere i clienti in condizioni critiche che erano rimasti indietro poi, dovendo aiutare cinque persone ed essendo da solo, fece il giro delle tende chiedendo aiuto a tutti. Fece il giro delle tende degli sherpa della Mountain Madness, degli sherpa della Consultant Adventure, degli sherpa della spedizione indonesiana. Nessuno gli rispose, gli sherpa dormivano al calduccio e non se la sentivano di rischiare la vita al gelo nella bufera. Poi cercò aiuto nelle tende dei clienti. Chiese aiuto a Kasischke, Groom e Krakauer ma Kasischke aveva problemi alla vista, Groom era appena arrivato e Krakauer dormiva.

Non c’erano più bombole di ossigeno da portare in soccorso a chi era ancora nella tormenta e Bukreev prese la bombola che stava usando Lopsang. Pemba gli offrì un thermos di tè caldo da portarsi dietro. Bukreev uscì all’una di notte, nella tormenta e si diresse in piano camminando nella direzione che Lene e Klev gli avevano indicato, camminando per circa 15 minuti ma non vide nessuno e tornò indietro. Verso le due Bukreev ritornò ancora alla tenda degli sherpa ma di nuovo non trovò nessuno disposto ad andare con lui a soccorrere i dispersi. Tornò di nuovo alle tende degli sherpa della spedizione di Rob Hall e disse che per trasportare Yasuko aveva bisogno di più persone ma di nuovo non trovò nessuno disponibile. Poi, da solo, tornò di nuovo alla ricerca dei dispersi e questa volta vide la lampada di Tim Madsen e trovò il gruppo. Soccorse i presenti, mise la maschera di ossigeno a Sandy, distribuì il tè. Poi chiese chi si sentiva di ritornare con lui e si offrì Charlotte. Assieme attraversarono il Colle Sud in quarantacinque minuti e finalmente alle tre di mattina arrivarono al Campo 4.

Bukreev fece di nuovo il giro delle tende in cerca di qualcuno che lo aiutasse ma nessuno si offrì di aiutarlo, però tolse la bombola di ossigeno a un altro sherpa e ritornò da Sandy, Tim e Yasuko. Yasuko Namba era inamovibile e Bukreev riportò al campo 4 i due che stavano in piedi e a malapena camminavano. Di Weather nessuna traccia. Alle quattro arrivarono al campo 4. Dopo essere sceso dalla cima dell’Everest e aver passato tutta la nottata in piedi nelle due uscite di salvataggio, Bukreev alle cinque del mattino, era esausto e finalmente si mise a dormire.

11 maggio

L’11 maggio, alle 4.43, Hall chiamò il campo base via radio dicendo di essere sulla cima sud a 8.749 m. Disse inoltre che Harris aveva raggiunto lui e Hansen ma che quest’ultimo “se n’era andato” mentre Harris non sapeva dove fosse. Hall riferì inoltre di non riuscire a inalare l’ossigeno delle bombole in quanto il suo erogatore era ghiacciato. Verso le 9 Hall era riuscito ad aggiustare la sua maschera dell’ossigeno ma disse anche che il principio di congelamento che la notte all’addiaccio gli aveva procurato alle mani e ai piedi gli impediva di scendere sfruttando le corde fisse. Più tardi, quel pomeriggio, chiese via radio al Campo Base di chiamare sua moglie Jan Arnold collegando il telefono satellitare alla radio. Durante la loro ultima conversazione Hall rassicurò la moglie dicendole: «Ti amo. Dormi bene, tesoro. Ti prego, non preoccuparti troppo». Poco dopo, morì. Il suo corpo venne trovato il 23 maggio dagli alpinisti della spedizione della IMAX, ma fu lasciato lì su richiesta della moglie che disse che lui si trovava “dove avrebbe voluto essere”. I corpi di Doug Hansen e di Andy Harris non sono mai stati trovati.

Sempre l’11 maggio Stuart Hutchison, un cliente della Adventures Consultant che il 10 maggio aveva rinunciato a raggiungere la cima, tentò una nuova spedizione di salvataggio alla ricerca di Weathers e Namba, con quattro sherpa. Quando li trovò erano entrambi vivi, rispondevano a mala pena, presentavano pesanti segni di congelamento ma respiravano ancora. Hutchison non sapeva cosa fare e chiese consiglio a Lhakpa Chhiri Sherpa scalatore e lui suggerì a Hutchison di lasciare Beck e Yasuko dov’erano. Di ritorno al campo seguì una riunione nella tenda di Groom: Stuart Hutchison, John Taske, Jon Krakauer e Mike Groom discussero che cosa fare e decisero “di lasciarli dove erano”, convinti che non si potesse fare più niente per loro.

Tuttavia e contro ogni aspettativa, quello stesso giorno, Weathers invece riprese i sensi e si incamminò da solo verso il campo. Il suo arrivo sorprese tutti, dal momento che lo ritenevano già morto. Data la sua grave ipotermia e i gravi segni di congelamento alle mani e al volto gli venne somministrato ossigeno, una fiala di cortisone e fu scaldato, mettendolo in due sacchi a pelo, da solo nella tenda di Fisher. Durante la notte la sua tenda collassò per il vento e lui, incapace di rimetterla in piedi, passò un’altra notte all’addiaccio in balia del vento di alta quota. La mattina del 12 maggio gli altri scalatori, credendolo morto durante la notte, si prepararono a scendere senza di lui, ma Krakauer scoprì che era ancora vivo. Nonostante le sue precarie condizioni, riuscì a scendere – aiutato da scalatori appartenenti a varie spedizioni – fino al Campo 2, dove fu evacuato in elicottero. Incredibilmente sopravvisse anche se gli dovettero amputare, per via del congelamento, il naso, le dita della mano sinistra e tutto l’avambraccio destro.

Fischer e Gau, infine, vennero localizzati dagli sherpa durante la giornata dell’11 maggio. Le condizioni di Fischer, tuttavia, erano talmente gravi che gli sherpa poterono somministragli solo cure palliative prima di salvare Gau. Sempre durante la stessa giornata ci fu un nuovo tentativo di salvataggio da parte di Bukreev, che trovò tuttavia il corpo di Fischer già congelato. David Breashears della Imax, appena seppe la notizia che avevano finito le bombole di ossigeno, mise subito la sua scorta di 50 bombole di ossigeno a disposizione. David Breashears, Ed Viesturs, le guide Pete Athans e Jim Williams della Alpine, si mossero subito verso il campo 4, e aiutarono i superstiti a scendere al campo 2.

Analisi

La tragedia fu causata da una combinazioni di eventi, tra cui:

  1. L’elevato numero di scalatori (34 scalatori) che si trovava in parete. Hall aveva indetto una riunione di tutti i capi spedizione e dei loro sidar, per proporre dei turni di salita alla cima dell’Everest per non intasare il cammino il giorno 10 maggio. Fisher era d’accordo ma quando fu il momento di mettere ai voti Ian Woodall, capo della spedizione inglese del Sunday Times di Johannesburg, si alzò dicendo che Hall non aveva nessun diritto di dirgli quando lui avrebbe dovuto scalare e quindi di questa ragionevole proposta (se non si fossero messi d’accordo avrebbero potuto tirare a sorte che giorno e chi andava per primo) non se ne fece nulla e il giorno dopo ci fu un elevato numero di scalatori, per la maggior parte lenti, sulla via sud dell’Everest.
  2. Al campo base, nei giorni precedenti alla scalata della vetta, Hall aveva preso in esame due possibili orari limite, l’una o le due del pomeriggio, allo scadere dei quali tutti sarebbero dovuti tornare indietro, in qualsiasi punto dell’ascensione si trovassero ma questa decisione non fu rispettata, permettendo a molte persone di giungere in cima ben dopo questo orario. Invece Fisher non aveva posto limiti.
  3. Un’ora e mezza di ritardo sulla tabella di marcia causata da due imbottigliamenti sul Balcone e sull’Hillary Step dovute al mancato preventivo fissaggio delle corde fisse, all’elevato numero di scalatori che attentavano una via che permetteva il passaggio di una sola persona per volta.
  4. L’improvviso malore di due scalatori nei pressi della cima verso le ore 15.00.
  5. Conseguenza dei ritardi fu che molti scalatori terminarono l’ossigeno prima o durante il ritorno alla Cima sud, dove c’era una scorta di bombole di ossigeno. Si trovarono così senza bombole di ossigeno nella zona morta, così chiamata perché in questa zona la maggior parte delle persone muore per ipossia in breve tempo.
  6. L’arrivo improvviso di una violenta tempesta che aggravò le condizioni già precarie degli scalatori.

Krakauer osservò che l’uso delle bombole di ossigeno e la presenza di guide pagate per accompagnare i clienti, segnare i sentieri, portare l’equipaggiamento e prendere le decisioni ha permesso a molto più persone, che altrimenti non si sarebbero mai potute trovare lì, di poter tentare di salire montagne al di sopra delle loro possibilità, aumentando in questa maniera i rischi e, conseguentemente, i morti. In aggiunta a questo, scrisse che la competizione tra le compagnie di Hall e di Fischer potrebbe aver influito sulla decisione di Hall di non rispettare l’orario massimo delle 14.00 fissato per il ritorno, così come la sua stessa presenza come giornalista inviato da un’importante rivista di alpinismo potrebbe aver aggiunto ulteriore pressione alle guide per portare in cima quanti più clienti possibile, a scapito dei crescenti pericoli. La proposta di Krakauer è quella di vietare le bombole di ossigeno tranne che in casi di estrema emergenza, sostenendo che ciò avrebbe dissuaso molte persone impreparate a tentare l’ascesa dell’Everest, oltre a diminuire il crescente inquinamento sulle pendici della montagna causato proprio dall’abbandono delle bombole di ossigeno vuote. Sempre Krakauer, tuttavia, nota che scalare l’Everest è sempre stata un’impresa pericolosa, anche prima dell’avvento delle spedizioni commerciali, con una mortalità di uno scalatore ogni quattro che arrivano in cima. Oltre a questo, fa notare che la maggior parte delle decisioni prese il giorno 10 maggio e che si sono rivelate sbagliate sono state prese dopo due o più giorni di permanenza nella zona della morte, in condizioni di carenza di ossigeno, cibo e riposo. La sua conclusione è quindi che decisioni prese in queste condizioni non possono essere criticate da coloro che non le hanno mai sperimentate.

 

IL FILM EVEREST RIAPRE LA QUERELLE KRAKAUER-BUKREEV

 

Krakauer analizzò tuttavia alcune statistiche sulle morti sull’Everest stabilendo che i 12 morti della stagione primaverile del 1996, rappresentano solo il 3% di coloro che, in quella stessa stagione, sono saliti oltre il Campo Base contro la media del 3,3% degli altri anni. Oltre a questo, il rapporto di 1 a 7 tra i 12 morti della stagione e gli 84 scalatori che hanno raggiunto la cima è significativamente più basso della media di 1 a 4 che c’era fino a quel momento. Conseguentemente, a livello statistico, si può dire che il 1996 sia stato un anno relativamente “sicuro”.

Lista dei morti

Nome Nazionalità Spedizione Luogo della morte Causa della morte
Andrew “Harold” Harris (Guida) Nuova Zelanda Adventure Consultants vicino alla cima sud, 8.749 m sconosciuta
Doug Hansen (cliente) Stati Uniti
Rob Hall (Guida/Capo spedizione) Nuova Zelanda assideramento
Yasuko Namba (cliente) Giappone Colle Sud, circa 7.900 m
Scott Fischer (Guida/Capo spedizione) Stati Uniti Mountain Madness Cresta sud-est, 8.300 m
Tsewang Samanla India Polizia di confine indo-tibetana Cresta nord-est, 8.600 m
Naik Dorje Morup India
Tsewang Paljor India

La tragedia nei media

  • Aria sottile è un libro scritto, a ridosso della tragedia, da Jon Krakauer, giornalista che ha fatto parte della spedizione di Rob Hall. È il primo libro pubblicato sulla tragedia ed è un’estensione dell’articolo omonimo che Krakauer aveva già scritto per la rivista Outside.
  • Into Thin Air: Death on Everest (del 9 novembre 1997), è un film-tv basato sul libro di Jon Krakauer. Il film è stato diretto da Robert Markowitz e scritto da Robert J. Avrech.
  • Everest: 1996 è il libro scritto da Anatolij Bukreev e dal giornalista Gary Weston DeWalt in cui Bukreev fornisce la sua versione della tragedia. Si configura, in parte, come una risposta al libro di Krakauer. In particolare descrive la notte del salvataggio di Sandy Hill Pittman, Charlotte Fax e Tim Madsen.
  • A un soffio dalla fine di Beck Weathers scritto nel 2000, racconta di come si sia perso nella tormenta e sia rimasto svenuto tutta la notte del 10 maggio e il giorno dell’11 maggio fino alle 4 del pomeriggio. Di come si sia risvegliato e tornato fortunosamente al campo 4, i particolari del salvataggio in elicottero e come sia continuata la sua vita senza mani.
  • Everest Io c’ero di Lene Gammelgaard scritto nel 1999, racconta i precedenti di Lene, il viaggio dalla Danimarca al campo base, la scalata e il ritorno di Lene.
  • High Exposure: an Enduring Passion for Everest and Unforgiving Places di David Breashears, scritto nel 2000, racconta i motivi che inducono una persona a diventare alpinista: l’arrampicata è la ricerca dell’eccellenza e dell’autoconoscenza. Arriva il pericolo, sostiene David, quando l’ambizione acceca la ragione.
  • Il film Everest, prodotto con tecnologia IMAX nel 1998 documenta la tragedia e il coinvolgimento della troupe del film nei soccorsi.
  • The Dark Side of Everest (2003), documentario prodotto da National Geographic Channel, affronta le motivazioni che spingono gli scalatori all’ascesa, le sfide che gli si pongono quando incontrano difficoltà e analizza in particolare le tragedie del 10–11 maggio 1996 e la morte di Bruce Herrod del 25 maggio.
  • Remnants of Everest: The 1996 Tragedy è un documentario diretto da David Breashears.
  • Everest, film del 2015 diretto, co-prodotto e montato da Baltasar Kormákur. La pellicola ha aperto la 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il 2 settembre 2015.
  • Joby Talbot ha composto un’opera, dal titolo Everest, basata sugli eventi del maggio 1996 e che ha debuttato all’Opera di Dallas in 2015.

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