Everest in tre soli giorni col (dopante) gas xenon

In pochi giorni sull'Everest grazie a questa sostanza vietata negli sport professionistici...

Everest: ci mancava il gas xenon. Negli ultimi anni ne abbiamo sentite tante ed ora, come se non bastasse, arriva la notizia dell’uso di questo metodo che promette di rivoluzionare la salita sull’Everest: scalare il Tetto del mondo in una sola settimana.
Questo gas, vietato negli sport professionistici dall’Agenzia mondiale antidoping (WADA) in quanto sostanza dopante, stimola la produzione naturale di eritropoietina (EPO). Un ormone che aumenta i globuli rossi, col risultato di migliorare la capacità del corpo di adattarsi all’altitudine. Senza passare, insomma, per la naturale acclimatazione. 
Risultato: più turisti sull’Everest, in quanto in una settimana il pacchetto è servito. Si passa in clinica, poi tre giorni di salita e uno di discesa. Avanti il prossimo.
C’è poi tutto il discorso legato al rilascio dei permessi da parte dell’autorità nepalese. Ma sappiamo come girano le cose da quelle parti, il turismo è una delle fonti principali, se non la principale, di introiti. Ecco perché quasi ogni anno, oramai, si battono record di presenze sull’Everest; ecco perché svolazzano sempre più elicotteri turistici sulle teste di escursionisti ed alpinisti sulla via del cb dell’Everest nonostante si sia all’interno del Parco Nazionale di Sagarmatha e nonostante le proteste delle comunità locali (pensate che lo scorso anno vi sono stati circa 6000 voli tra Lukla e il campo base).
Ma sappiamo pure qual è il problema maggiore sull’Everest: il traffico, con tutte le complicanze, anche nefaste.
Chi ha proposto questo metodo, afferma che l’obiettivo principale è la sicurezza. Ovvero, meno tempo in alta quota significa meno rischi. Costo aggiuntivo: circa 5mila dollari. Stessa agenzia che qualche tempo fa lanciò il progetto Everest Flash, salita senza acclimatazione con l’utilizzo di camere ipobariche. Costo: 95mila dollari.
Il dibattito è aperto. Un dibattito usurato, rinnovato e reinventato. Perché l’alpinismo non è uno sport  e in quanto tale non deve sottostare ad alcuna regola scritta. Solo all’etica. A quella di ogni singolo uomo e al suo rapporto intimo con la montagna. 
Da un lato l’alpinismo commerciale, sempre più commercializzato, dall’altro la ricerca dell’ignoto, il rapporto “pulito” con le alte quote, il sudore, lo spirito di avventura, il pericolo e l’adrenalina, l’esperienza, l’intuito, l’autenticità… 
L’Everest in particolare. Perché è il Tetto del mondo, perché salire sulla vetta della montagna più alta del pianeta è il coronamento di un sogno, un obiettivo da raggiungere come potrebbe essere il top in qualsiasi altro sport, passione, hobby, professione. Ma sino a poco tempo fa era una sfida da vincere, ora è diventato un vuoto trofeo da esporre.
8849 metri: ciò che dovrebbe essere un simbolo dell’avventura è diventato sempre più un ticket da comprare in base al portafogli. 
E allora cosa dovrà ancora vedere la Dea Madre del mondo? Oltre alle autostrade, semafori, traffico intenso e file indiane, elicotteri, ladri, angeli custodi che ti tirano su e poi giù, frutta di stagione e musica dance, sfilate di moda e matrimoni, cadaveri abbandonati, massi simbolici vandalizzati, aiuti negati a chi è in difficoltà per non compromettere il proprio obiettivo, immondizia gelata e acqua all’escherichia coli e altre schifezze, gas dopanti…   

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